mercoledì 8 agosto 2012

L'esistenza di Nazaret



E veniamo a Nazaret, ormai diventato l'oggetto del contendere, più che altro, mi pare di capire, per dimostrare che i Vangeli sarebbero sempre scarsamente attendibili.



Visto che servono i dati di fatto cominciamo a mostrare delle foto, innanzitutto per dire che Nazaret all'epoca di Gesù esisteva. Questo è il bagno rituale molto simile a quelli usati dagli Esseni a Qumran ritrovato presso la grotta detta della Vergine.


Questa è la visione aerea del villaggio a nord della grotta della Vergine, fin dove è stato possibile scavare.  Mi scuso per l'immagine approssimativa, ma qui non ho lo scanner e ho fatto una foto alle pagine del libro. Secondo il resoconto degli archeologi si riconoscono i seguenti elementi:
1) Il frantoio
2) Una casa
3) Entrata alle cantine
4-5-6 aperture del silo
7) bacile rettangolare
8) fori del frantoio
9) Una casa
10) la cava dei capitelli
11) Granaio
12) Cisterna con scalini
13-14) aperture del silo
15) silo sotto la chiesa
16) la cisterna
17) Muro della chiesa crociata

Ovviamente si tratterebbe di controllare le relazioni di scavo per vedere che cosa sia stato effettivamente trovato nei diversi strati e nelle diverse zone, però sta di fatto che il villaggio c'è.



Queste qui sopra sono tombe di epoca romana ritrovate sotto il convento delle Dames de Nazaret sempre in città. L'iscrizione di cui parlavi tu potrebbe riferirsi a questa zona cimiteriale.




 Queste sono le grotte ritrovate sotto la chiesa di San Giuseppe che si trova tra la basilica dell'Annunciazione e il pozzo della Vergine attiguo la vicina chiesa ortodossa di San Gabriele. C'è da pensare a questo punto che anche la parte oggi occupata dalle costruzioni della città presentasse delle grotte...



Questa è una vasca battesimale probabilmente ricavata da un precedente bagno rituale che si trova in loco sempre sotto la chiesa di San Giuseppe.




Questo è il pozzo della Vergine presso la chiesa di San Gabriele. Da esso l'acqua veniva portata in superficie con un rudimentale sistema di pompaggio e pare sgorgasse in superficie come del resto fa ancora oggi. Gli ortodossi l'hanno identificata con la fontana da cui anche Gesù da bambino andò ad attingere acqua secondo il Vangelo apocrifo di Tommaso.

Queste sono alcune delle rilevanze archeologiche della zona. La certezza che Gesù sia vissuto qui da piccolo ovviamente non si può avere, però non si può neppure dire che non ci fossero insediamenti all'epoca in cui è vissuto. Comunque, se tu dici che andò a predicare a Sefforis (oggi Zippori) dove c'era effettivamente anche la sede di un Sinedrio significa che si trattava di percorrere 5-6 km cioè una distanza irrisoria, per giungere alla sinagoga, sempre ammesso che a Nazaret non ci fosse (cosa che non so dire con certezza perché non ho immagini di scavo della chiesa-sinagoga melchita); ancora oggi si potrebbe tranquillamente percorrere a piedi in un'ora. Per gente abituata a muoversi sempre a piedi non credo fosse un problema.  La distanza rispetto a Cana (almeno la Cana della tradizione, perché sull'ubicazione sono sorti dei dubbi) più o meno è la stessa. Sempre percorribile in un'ora di cammino. Questo per far capire la sottigliezza delle argomentazioni: probabilmente Gesù è stato spesso in tutti e tre i luoghi se teniamo conto delle distanze. Siccome a Nazaret il villaggio c'era non si capisce perché dovrebbe essere stato da un'altra parte, poteva recarsi da lì sia a Sefforis sia a Cana tranquillamente. Ma pare che l'esistenza di Nazaret disturbi altre ipotesi sui Nazirei, sull'aggiunta tarda di nazareno ecc ecc. Per quanto riguarda le fonti scritte il luogo è ricordato come abitazione della famiglia di Gesù dallo storico del II secolo Egesippo che afferma ci fossero ancora suoi parenti cioè i nipoti del fratello di sangue di Gesù, Giuda all'epoca delle persecuzioni di Domiziano.

Per quanto riguarda la santa casa di Loreto, pare che i crociati nel 1291. quando lasciarono definitivamente la Terrasanta, abbiano demolito e portato per nave i pezzi di una stanza attigua alla grotta della Vergine a Nazaret. Di sicuro i mattoni così a vederli, sembrano romani. Alcuni di essi mostrerebbero dei grafiti in greco e in ebraico... ma i grafiti, certo, non provano un gran che.
La chiesa di Les Saintes Maries de la Mer che anch'io ho visitato, è dedicata a Maria (sorella della Madonna) madre di Giacomo minore, Maria madre di Giacomo maggiore e Giovanni (figli di Zebedeo) e a Maria Maddalena. La madre di Gesù non c'entra. Casomai Maria madre di Gesù si sarebbe trasferita ad Efeso con Giovanni dove è ancora molto venerata anche dai musulmani presso una casa, che ho visitato, ubicata fuori della città romana dove si dice abbia vissuto. Però è una tradizione molto tarda di una mistica tedesca dell'inizio dell'Ottocento perciò lascia il tempo che trova.








lunedì 13 febbraio 2012

GIOCANDO A SCACCHI CON I PROPRI INCUBI – Il mondo virtuale in “Finale di partita” di Samuel Beckett nell’originale interpretazione di Massimo Castri

 

Tra gli spettacoli più interessanti di questi ultimi due anni (tuttora in tournée, vincitore del premio UBU 2010 e Alabarda d’oro 2011) è senz’altro da segnalare “Finale di partita” di Samuel Beckett per la regia di Massimo Castri, interpretato dagli ottimi Vittorio Franceschi (Hamm), Milutin Dapcevic (Clov), Diana Hobel (Nell), Antonio Giuseppe Peligra (Nagg). Tra le novità introdotte dal regista nell’interpretazione di quest’opera particolarmente complessa, capolavoro del “Teatro dell’assurdo”, c’è il ruolo centrale giocato dalla realtà virtuale, creata dalla coscienza stessa dei protagonisti. Secondo questa chiave di lettura, la vicenda, inizialmente ispirata agli ultimi giorni di Hitler nel suo bunker di Berlino, può essere anche intesa come il paradigma delle deformazioni mentali dell’uomo contemporaneo, che preferisce la creazione di una realtà virtuale, per quanto deserta, anziché confrontarsi col mondo reale. Se per Beckett, oltre 50 anni fa, era già possibile immaginare una coscienza chiusa completamente in se stessa perché “al di là c’è l’altro inferno”, oggi la possibilità di vivere completamente rinchiusi anche materialmente in una sola stanza, ignorando totalmente ciò che avviene fuori, appare ancor più concreta: almeno in teoria, si potrebbe sopravvivere affidandosi soltanto ad una realtà totalmente digitale. La scena si apre su una stanza grigia di una casa vagamente retro, ma incredibilmente spoglia e priva di arredi: un pavimento a scacchiera, due finestre poste in alto sulle pareti laterali - l’una rivolta verso il mare, l’altra verso la spiaggia - un quadro sopra il caminetto, girato però verso il muro, e due grandi bidoni della spazzatura. Al centro della scacchiera su una sedia a rotelle è seduto Hamm, metafora dell’uomo al centro dell’universo, che ha fallito totalmente il compito di “signore” della creazione. Il re sotto scacco di questo “finale di partita” (ispirato effettivamente al gioco di cui Beckett era appassionato) è, infatti, un vecchio signore cieco e paralitico il quale ha bisogno di essere accudito in tutto e per tutto da Clov (la regina), il servo fedele, zoppo, ma incapace di stare seduto. Clov è stanco di questa vita, ha il forte desiderio di scappare, ma il vuoto che sembra circondarli e il rapporto simbiotico con il proprio padrone lo costringeranno a rimanere nella casa fino alla fine. Nei bidoni vivono i genitori di Hamm (i pedoni), che a loro volta non possono muoversi, perché hanno perso entrambe le gambe, “in un incidente nelle Ardenne”, vale a dire, durante le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. Hamm sembra ossessionato dal desiderio di annientare tutto ciò che è vivo, compresi i propri genitori, che egli odia, ritenendoli responsabili di averlo messo al mondo.

 

Sia Hamm sia Clov sostengono che ormai si è giunti alla fine, che qualcosa "sta facendo il suo corso" ed è arrivato alla conclusione, probabilmente perché Beckett intende riprodurre gli ultimi attimi di vita di un cervello pensante, ma ormai bloccato, non sappiamo se dalla morte fisica o dalle sue errate convinzioni sul mondo. E’ come se il tempo si fosse fermato e tutto ciò che si trova al di là delle pareti della casa fosse stato eliminato, tagliato fuori fisicamente ed escluso anche dal ricordo, come testimonia, appunto, il dipinto voltato al contrario. In quest’opera Beckett immagina un folle dittatore o un Logos maligno, che sarebbe riuscito ad attuare la “soluzione finale”, distruggendo la vita dell’intero pianeta, ma lo interpreta poi in senso metaforico e astratto, mettendolo in relazione con la coscienza dell’uomo contemporaneo. La distruzione totale, affermata da Clov e Hamm, non appare, infatti, veritiera, come dimostra il bambino avvistato, ad un certo punto, fuori dalla casa. Massimo Castri accentua questa interpretazione dell’opera poiché quando Clov apre una delle finestre della stanza si sentono voci di bambini che si divertono come se fuori ci fosse un parco, ma i due protagonisti si ostinano a dire di non sentire nulla. Sembra, perciò, che Hamm e Clov si siano volutamente rinchiusi in un luogo che essi stessi hanno isolato dal mondo, creando un loro deserto mentale, mentre fuori esiste la vita vera. In tal caso sarebbe il personaggio stesso di Hamm ad essersi autosegregato, seguendo un impulso nichilista di autodistruzione o un inutile tentativo suicida di non soffrire: infatti, per quanto sia chiuso in un luogo isolato e non venga in contatto pressoché con nessuno, a parte le figure dei genitori, chiede continuamente il suo calmante perché è preso ugualmente dall’angoscia esistenziale e non sa stare solo con se stesso. E’ come se egli avesse eliminato tutti gli esseri viventi dalla propria esistenza, ritenendoli responsabili del malessere che prova, per poi accorgersi che l’origine di esso risiede fondamentalmente nel suo stesso io. Hamm chiede continuamente a Clov di essere spostato avanti e indietro di una casella sulla scacchiera, proprio come il pezzo del re negli scacchi, ma è tutto inutile perché la situazione appare ormai senza via d’uscita. Il Logos maligno è il superstite dei due conflitti mondiali e dei regimi totalitari e spietati del primo Novecento, ma secondo Beckett, esso influirà anche sulla società successiva, forse perché è insito nella natura umana: dopo essere stato irrimediabilmente minato dalle guerre, diffonderà una violenza nichilista che accomunerà tutti, perché la coscienza umana non sarà più in grado di vedere la positività dell’esistenza, ma resterà segnata da pulsioni autodistruttive. L’uomo diventerà malato e, in preda alle sue paure ed ossessioni, cercherà di isolarsi dal mondo, smettendo di riprodursi e condannando chi ha dei figli. La vita sarà considerata una malattia, al punto che Hamm insulta i propri genitori perché l’hanno fatto nascere e condannato a vivere. Il dolore di Hamm è però controllato da Clov, che utilizza diversi oggetti (i mezzi tecnologici) per compiere la volontà del padrone, poiché quest’ultimo, ormai immobilizzato, non è in grado di usarli da solo: per osservare il paesaggio il servo guarda dalle finestre con un cannocchiale che ci ricorda la scienza galileiana, mentre è spesso presente in scena una sveglia che simboleggia la misura del tempo. Tutti questi oggetti, però, non servono per vedere e capire se la mente nega ogni evidenza. Il rampino usato da Hamm nell’inutile tentativo di muoversi rappresenta probabilmente il rapporto di causa ed effetto, ma anch’esso è inutilizzabile, perché, avendo distrutto ogni cosa, non esistono più né gli effetti né le cause. L’unica cosa che il protagonista riesce ancora a fare è raccontare storie sebbene il suo passato sia confuso e i ricordi risultino incompleti, anche perché il linguaggio si sta deteriorando e impoverendo, come tutto il resto. In altre parole la sola esistenza possibile a questo punto è soltanto raccontata, inventata dalla sua mente cioè virtuale; ecco delinearsi, quindi, il collegamento con il mondo di oggi, di cui secondo Castri, quest’opera diventa metafora, al di là del rapporto con le grandi catastrofi del Novecento. Hamm racconta di aver distrutto ogni cosa, convinto com’era che per il mondo, condannato alla sofferenza, fosse meglio l’annientamento totale. In seguito, però, ricorda e rimpiange ciò che egli stesso ha cancellato: per esempio, ha sterminato il genere umano, ma poi, avendo bisogno di un servo ha fatto da padre a Clov, strappandolo all’affetto del suo vero genitore e ingiungendo probabilmente a quest’ultimo di sacrificare la propria vita per la salvezza del figlio. In quest’ambiente dove dominano la paura di ogni cosa viva e il conseguente desiderio di sterminarla, anche la speranza del cambiamento, rappresentata dal bambino avvistato fuori della casa, appare piuttosto inconsistente, almeno secondo Hamm: se, infatti, in un primo momento il protagonista ordina a Clov di ucciderlo, in seconda battuta pensa che se esiste davvero e sopravviverà, prima o poi giungerà lì. Il bambino. infatti, sta seduto per terra ad osservarsi l’ombelico, sentendosi evidentemente anche lui al centro dell’universo come Hamm; oppure sta guardando il suo sesso, simbolo del desiderio di perpetuare la specie e se stesso. Anche il bambino, perciò, secondo Beckett, quando crescerà arriverà nella casa e prenderà semplicemente il posto di Hamm come se le pulsioni autodistruttive del genere umano fossero inguaribili. L’ultima chance, ovviamente fasulla, è rappresentata dalla religione, creata da Clov in modo piuttosto maldestro, e simboleggiata dal cane di pezza a tre zampe, che Hamm getta via, dopo che, al termine di una sua “ispirata” preghiera, Dio non risponde… Alla fine Clov trova il coraggio di fare le valigie e andarsene, ma prima di raggiungere l’uscita resta bloccato, immobile di fronte ad Hamm. La sveglia non suona più. Il tempo è finito…

sabato 4 febbraio 2012

Mio padre, il mio assassino



Ha strappato il figlio dalla braccia della nonna
e ha vagato senza meta lungo il Tevere,
poi mentre un poliziotto stava per fermarlo,
l’ha gettato nel fiume come un fagotto.
Mentre Roma era tutta bianca di neve
e il cielo era velato da fiocchi lenti infiniti
Le acque gelate hanno nascosto e sommerso
quella piccola vita di sedici mesi
Chissà che cosa ricorderà del nostro mondo
che l’ha ucciso prima ancora di conoscerlo
Forse solo le urla dei litigi dei suoi genitori
Forse l’ultimo abbraccio crudele di suo padre
chiuso nel silenzio della colpa
Il sorriso della mamma che non era lì ad aiutarlo…
Un altro sacrificio di un innocente
perché il cuore dell’uomo cambi
Ma gli uomini non cambiano non vogliono cambiare.
E il fiume scorre ancora.

mercoledì 1 febbraio 2012

ANCHE IL MERCATO ASPETTA GODOT - “L’Affarista”, l’impietosa satira di Honoré de Balzac sul mondo della speculazione borsistica, è ancora un’opera teatrale di sorprendente attualità


"Ah! Conoscete la nostra epoca! Oggi, signora, tutti i sentimenti svaniscono e il denaro li sospinge. Non esistono più interessi perché non esiste più la famiglia, ma solo individui! Vedete! L'avvenire di ciascuno è in una cassa pubblica (...) Vendete gesso per zucchero: se riuscite a far fortuna senza suscitare lamentele, diventate deputato, pari di Francia o ministro." Se volete divertirvi andando a teatro, ridere di gusto, in modo intelligente, della crisi finanziaria dei nostri giorni e magari scoprire anche qualche bandolo dell'intricata matassa dei mercati, allora "L'affarista" è lo spettacolo giusto. L'opera, pubblicata da Honoré de Balzac durante la crisi economica del 1848, sembra più o meno scritta oggi, visto che le problematiche legate al funzionamento dell'economia di mercato - tra banche, Borse e consigli di amministrazione - somigliano in modo sorprendente alle notizie dei nostri telegiornali. Nello spettacolo presentato nei giorni scorsi al Teatro Sociale di Brescia, all'attualità del testo si aggiunge poi la brillante messa in scena del regista Antonio Calenda, nella quale si impone il protagonista Mercadet, interpretato con travolgente verve da Geppy Gleijeses.
In questa esilarante e illuminante cavalcata all'interno delle assurde e farsesche contraddizioni del nostro sistema economico, il protagonista è accompagnato da un gruppo di ottimi attori tra i quali ricordiamo soprattutto Marianella Bargilli che interpreta la figlia Julie e Paila Pavese la moglie dell'"affarista", funambolo folle e incosciente della speculazione borsistica. L'opera propone, con accenti ironici e sarcastici, una lucida analisi della situazione in cui la borghesia si è venuta a trovare da quando allo sviluppo industriale si è aggiunto lo strapotere del capitale finanziario attraverso l'introduzione delle quotazioni di borsa. Con la giustificazione, infatti, di trovare finanziatori per le proprie imprese, si è dato il via all'emissione di azioni da quotare, in base, appunto, alla credibilità a breve e a lungo termine delle aziende, vale a dire in base all'odierno temutissimo rating di cui tanto sentiamo parlare in questi giorni. Peccato, però, che tutto sia fondato in gran parte su notizie che sconfinano nelle dicerie, su bilanci non si sa fino a che punto veritieri, su voci incontrollate che possono far alzare o abbassare il prezzo di un'azione all'improvviso e in modo inopinato. Balzac senza mezzi termini colpisce duro i fautori del mercato ad ogni costo e con ogni mezzo, gli speculatori, quelli che sfruttano le disgrazie altrui, quando addirittura non le creano; quelli che, come lo stesso Mercadet, inventano false notizie per abbassare il prezzo di un'azione e quindi ricomprarla prevedendo un rialzo nel momento in cui tali notizie saranno smentite. E che dire dei giochi al ribasso e a borsa chiusa dove le cose si decidono dietro le quinte all'insaputa di risparmiatori e piccoli investitori? Ma se Mercadet è un malato dell'affare, un trader da rischio estremo, d'altra parte i suoi creditori - trasformati da Calenda in caricature ispirate a Honoré Daumier - non sono da meno: come le banche di oggi, anche loro sono lì a speculare sulle disgrazie altrui, come corvacci che si addensino nel cielo del dichiarato fallimento oppure stiano a vedere se si possa in un modo o nell'altro trovare ancora l'"affare" miracoloso che risolva tutti i problemi. E così, se l'affare non c'è, si può sempre inventare. Come? Semplicemente emettendo azioni di una meravigliosa azienda fantasma: dal giornale che non si stampa alla miniera di carbone scoppiata, l'importante è "far credere che…" qualunque cosa sia, purché il mercato cada nella trappola anche solo per un giorno, il tempo di far salire il prezzo e vendere. Oppure ci si inventa un fantomatico socio venuto da Calcutta che ripianerà tutti i debiti…
Il mitico signor Godeau in realtà scappato con la cassa di Mercadet (ma sarà vero? magari è sempre stato un'invenzione!) che, si favoleggia, tornerà ricchissimo dalle Indie. Il suo nome vi ricorda qualcosa? E' il personaggio al quale Beckett si è ispirato nel suo Aspettando Godot, per identificare qualcuno che non arriva mai e che l'uomo stesso si è inventato. Godeau, insomma è "il salvatore del mercato" atteso da tutti. E d'altra parte non si vende anche oggi non tanto quello che c'è, ma soprattutto quello che non c'è? Non ci si basa su veri o presunti soci (magari proprio indiani o cinesi), su cordate e Opa più o meno fantasma? Com'è piccolo il mondo! Stupisce l'acume di Balzac e la sua straordinaria lucidità quando enuncia la logica del mondo moderno che è soltanto una somma di egoismi ed è completamente governato dal denaro e dalle leggi dell'economia in modo assolutamente "bypartisan", visto che, quando si tenta la carta della carriera politica, fare i progressisti pare sia molto chic e quindi perché non optare per una bella candidatura socialista? Così De la Brieve, il più sfacciato degli impostori che subito fa lega con Mercadet, tra i suoi sogni, ha proprio quello di diventare ministro... socialista ovviamente. Molto meglio che lavorare, tanto che quando la signora Mercadet invita entrambi finalmente a rinunciare alle loro trappole da imbroglioni e ricominciare da capo con un lavoro onesto, tutti e due rispondono con orrore: "Un lavoro??!!" Alla fine la "geniale" soluzione di Mercadet mette d'accordo tutti, compresi gli scrupoli di coscienza delle due donne di famiglia, madre e figlia, che da buone borghesi, sperano di salvare l'onorabilità. Non sanno, però, che in una società del genere nessuno entrato in quel meccanismo potrà mai preservare l'onore né l'etica e men che meno la virtù, con buona pace dei fiduciosi riformatori del mercato. In realtà molto poco è stato fatto da allora ad oggi per modificare seriamente determinati meccanismi economici e probabilmente nulla si farà, al di là delle belle parole, data l'enorme importanza degli interessi in gioco. Sono passati quasi due secoli da quando Balzac scriveva ed è forse cambiato qualcosa di sostanziale? Anzi, al contrario, ciò che si vende e si compra a livello finanziario appare talvolta ancora più virtuale e pericoloso di una volta. Derivati e affini docent.
Rossana Cerretti

martedì 17 gennaio 2012

SHAME, LA TRISTE LIBERTA'

Angoscia e sesso spazzatura in uno dei film più belli della stagione, interpretato da un grande Michael Fassbender
Brandon Sullivan è un uomo solo: niente veri amici, niente famiglia, solo un lavoro di successo, un appartamento minimalista vista Hudson, da cui si domina New York, e sesso freddo, asettico, brutale, reale o virtuale che sia; può essere la donna di una sera rimorchiata in un bar o la prostituta prezzolata. Non importa. Brandon, efficiente e brillante manager in ufficio, nella vita privata si aggira per New York come un animale randagio in cerca dei suoi simili, con l’incapacità di restare solo con se stesso e il desiderio di distrazione dall’ansia e dalla rabbia che cova in lui. Rifugge volutamente dal contatto umano, perché quello che vive tutti i giorni e le notti è solo un contatto di corpi dal quale non vuole essere realmente “toccato”. Tra Brandon e l’altro sesso, c’è un muro che egli stesso ha elevato, altissimo e invalicabile, fatto di regole ferree: una donna per non più di una sera, niente relazioni, irreperibile per chi lo cerca, soprattutto se donne; in realtà, però, non lo cerca nessuno, a parte sua sorella Sissy che gli chiede continuamente aiuto. Aiuto che Brandon non ha alcuna intenzione di darle. Lui ha la sua tana da lupo, con le cene preconfezionate tirate fuori dal frigo, le chat erotiche, la masturbazione da quindicenne, le corse sfrenate nella notte per sfogarsi. Brandon, interpretato da un bravissimo Michael Fassbender (coppa Volpi al Festival di Venezia per questo ruolo), è un Don Giovanni triste, eppure le donne difficilmente resistono al suo sguardo ipnotico che emana eros da ogni parte, come un serpente che fissi la preda e la immobilizzi incantandola.
Steve McQueen (video artista inglese, passato brillantemente alla regia, omonimo del famoso attore degli anni ‘60 – ’70) fornisce un ritratto impietoso e obiettivo di uno dei tanti single incalliti di cui ormai la nostra società pullula: uomini volutamente isolati che rifuggono da qualunque responsabilità nei rapporti umani, che temono il sentimento e lo eliminano dalla loro vita, credendo di eliminare così anche la sofferenza; senza rendersi conto che in questo modo si privano semplicemente della vita stessa. Alla fine, però, la sorella Sissy, interpretata dalla brava Carey Mulligan, stanca di lasciare messaggi telefonici senza risposta, piomba a casa di Brandon senza avvisarlo. La scena che segue è tragicomica: la solitudine del protagonista, infatti, è talmente inveterata che, appena scopre la presenza di una persona in casa sua, egli pensa ci siano i ladri e la sua prima reazione è quella di cercare un’arma per difendersi. Giusto presentimento, visto che tra i due comincia una lotta psicologica senza quartiere. Sissy diventa per lui l’elemento nuovo nella sua esistenza incredibilmente robotizzata, una presenza che non sa gestire. Tanto più che la sorella, reduce dall’ennesima delusione amorosa, cerca in lui rifugio e protezione.
Di loro non sappiamo nulla, solo che sono del New Jersey e se ne sono andati molto giovani, probabilmente per sottrarsi ad una situazione difficile, nient’altro. Sono degli sradicati senza passato, almeno apparentemente, ma poi il loro vissuto è, di fatto, una zavorra insostenibile per entrambi. Al contrario del fratello, Sissy non è capace di badare a se stessa, è continuamente alla ricerca di conferme e di affetti che però durano una notte o poco più e poi scompaiono nel nulla. Rappresenta l’altra faccia della medaglia della vita di Brandon: schiacciata dall’ennesimo rifiuto, la sua urgenza di amore la fa diventare instabile, invadente, e inopportuna. Brandon sente una sua telefonata disperata all’ex fidanzato che la respinge ancora una volta. Mentre ascolta la conversazione, il suo viso è quello di un uomo che sa esattamente che cosa Sissi stia passando e che cosa lui abbia deciso di evitare come la peste: la possibilità di mettersi nuovamente in gioco e quindi di soffrire disperatamente. Quando invita a cena una sua collega di lavoro e cerca per una volta di cominciare un rapporto degno di questo nome, appare bloccato e impaurito come un novellino, terrorizzato; quando poi vuole provare a “fare l’amore” sul serio anziché semplicemente “sesso meccanico”, ad un certo punto non riesce più a continuare. Nel frattempo Sissy, sempre più incosciente è andata a letto con David, amico e capoufficio di Brandon, personaggio dalla vita squallida: classico pappagallo da bar, con moglie e figli, che non si fa scrupolo della fragilità di lei né del fatto che sia la sorella del suo collega e ne approfitta senza pietà. E pensare che aveva notato subito le braccia di Sissy piene di cicatrici, visto che non si sa neanche più quante volte la giovane abbia tentato il suicidio tagliandosi le vene. Brandon è arrabbiato con lei, è furioso perché Sissy fa riaffiorare in lui dei sentimenti che non voleva più ricordare; è una donna per la quale non può mostrare indifferenza, ma tra vittima e carnefice sceglie ancora il carnefice.

 
Davanti a loro c’è continuamente il deserto di una città lontana e triste, dove, parafrasando “New York New York” (cantata da Sissy in una originale versione malinconica) si sperava di arrivare al colmo del successo e ci si è ritrovati soli in riva all’Hudson come estranei a guardar scorrere la vita degli altri. L’emotività della sorella “stana” il protagonista dal suo mondo, lo mette davanti ad uno specchio: egli è diventato almeno esteriormente un insensibile cacciatore di emozioni e di possesso mentale (a proposito del sesso dice:“mi piace come mi fa sentire, come se esistessimo solo io e lei”); Sissy, invece, è sempre all’affannosa ricerca di un uomo che non la abbandoni, incapace com’è di vivere senza aver bisogno di qualcuno. Di fatto a causa del loro vissuto precedente, entrambi usano il sesso come unica forma di contatto con l’altro e come merce di scambio. Sono uguali, in realtà, simili al punto che tra loro esiste uno strano rapporto quasi simbiotico, sviluppatosi proprio nell’ambito di una famiglia con caratteri patologici. La loro relazione ricorda “Vaghe stelle dell’Orsa” di Luchino Visconti, ma il rapporto è invertito, visto che nel capolavoro del famoso regista italiano è il fratello Gianni l’anello debole della catena. C’è qualcosa di strano sicuramente nella loro storia, qualcosa che il regista non racconta, ma di cui vediamo gli effetti: “non siamo brutte persone è solo che veniamo da un brutto posto”… Durante un'intervista, ai giornalisti che chiedevano notizie sul passato dei due protagonisti, Fassbender non ha voluto rispondere per lasciare questo aspetto alla libera interpretazione dello spettatore, pur ammettendo di aver formulato diverse ipotesi a riguardo. Forse alle spalle c’è una vicenda di violenza familiare, come dimostrerebbe la tendenza all’autodistruzione e l’incapacità di entrambi di riconoscersi sessualmente in modo maturo. Molti hanno interpretato il titolo Shame, “vergogna” come riferito alla vita che Brandon conduce da adulto, ma probabilmente rappresenta, piuttosto, quel senso di colpa e di paura da cui nasce la sua incapacità di rapportarsi col mondo. Il regista, infatti, più o meno consciamente descrive gli effetti a lungo termine di un abuso sessuale infantile: uno degli atteggiamenti tipici della vittima, infatti, è proprio la tendenza ad isolarsi e a rifiutare le relazioni affettive, oppure a fare di se stessa una merce di scambio sessuale. Probabilmente c’è un vissuto comune di fratello e sorella in cui, a fronte di una famiglia dai caratteri fortemente negativi, hanno cercato di creare un luogo mentale di protezione vicendevole, ma forse cadendo in una relazione morbosa.
Sissy riattiva in Brandon l’esigenza di sensazioni reali e non più solo virtuali; così il protagonista getta via il computer, ma non riesce ugualmente a imbastire una relazione con l’altro sesso e allora, in una specie di delirio autopunitivo, scende i gradini del suo vizio cercando emozioni sempre più forti e perverse. Fino al momento del brusco risveglio… Finalmente Brandon corre per un vero motivo, ma potrebbe essere troppo tardi. Il regista lascia il finale aperto: in uno scenario in cui domina un individualismo predatorio e ciascuno infligge agli altri continui traumi reciproci, fratello e sorella potranno salvarsi? Il sorriso di una sconosciuta veglia su di lui idealmente dall’inizio alla fine del film. Forse Brandon tenterà…

giovedì 12 gennaio 2012

E QUESTA SAREBBE ANTIGONE?



Ormai da parecchi anni il Teatro Stabile di Brescia ad ogni nuova Stagione di prosa ci infligge le uggiose performance delle Belle Bandiere, compagnia composta da Marco Sgrosso, Elena Bucci & C.. Già in altre occasioni ha destato un certo attonito stupore l’insistenza con la quale questo gruppo di attori venga riproposto in qualunque tipo di repertorio, anche in opere per le quali risulta assolutamente inadatto. Se, infatti, su testi contemporanei come “L’amante” di A. Pinter o “Edda Gabler” di Ibsen, i loro spettacoli, con un tipo di recitazione piuttosto straniante e freddo, potevano anche avere un senso e in qualche modo funzionare, già con il “Macbeth” e ancor più con la “Locandiera” di Goldoni sono stati dolori: molto poco credibile Marco Sgrosso nel ruolo del crudele sovrano scozzese e, soprattutto, priva del temperamento necessario la Lady Macbeth di Elena Bucci. Della “Locandiera”, poi, meglio non parlarne: negati completamente i presupposti dell’opera goldoniana, le Belle Bandiere sono andate semplicemente per conto loro, trasformando la protagonista da un’icona dell’intelligenza borghese ad una specie di insulso e riprovevole playboy in gonnella. L’apoteosi negativa, però, è stata raggiunta mercoledì scorso con “Antigone”: in questo caso la compagnia ha veramente superato se stessa (in peggio ovviamente) creando un’opera lenta, senza ritmo, priva di qualunque drammaticità, svuotata completamente del suo contenuto. E, a dire la verità, ce n’è voluto perché il capolavoro di Sofocle è veramente difficile da distruggere: generalmente riesce sempre ad imporsi per la forza straordinaria delle sue ragioni contrapposte e per il conflitto, ancora attuale, tra morale naturale e legge dello Stato. Da oggi, però, dovremo dire “quasi sempre”, visto che, alla fine, anche quest’opera è stata costretta a soccombere sotto il peso di una messa in scena a dir poco grottesca: movimenti scenici inesistenti o inutili, ritmi lenti e goffi, recitazione (?) pessima, gridolini, risolini e mossettine che, probabilmente, nelle intenzioni della regista Elena Bucci (ma parlare di regia in questo caso sembra davvero azzardato!) dovevano significare il coro… Che dire? Dobbiamo senz’altro riconoscere alle Belle Bandiere la “gloria” di essere riusciti nell’impresa fino ad oggi ritenuta pressoché impossibile, di annichilire Sofocle e la sua immortale poesia. Il pubblico, sbigottito, ha applaudito ben poco, lasciando la sala mentre gli attori ancora si profondevano negli inchini finali… Rimane solo da fare un appello accorato ai direttori artistici: per gli anni a venire meditate, gente, meditate! Possibile che non ci si possa guardare un po’ più intorno? Per adesso, intanto, chi se la sente continuerà a sorbirsi le Belle Bandiere e buon divertimento! Per parte nostra, a questo punto, abbiamo già dato…

martedì 10 gennaio 2012

Segreti e bugie di John Edgar Hoover

Diretto da Clint Eastwood, Leonardo Di Caprio accetta la sfida di interpretare la controversa figura del fondatore dell’FBI



L’ultimo film di Clint Eastwood è dedicato ad una vera e propria eminenza grigia del potere americano, J.Edgar Hoover , fondatore e capo dell’FBI, rimasto in carica per ben 48 anni e sopravvissuto a otto presidenti con sistemi alquanto spregiudicati, come l’uso di dossier segreti e scottanti sugli uomini di governo. Censore implacabile qual era, poco prima di morire, nel 1972, si apprestava ad entrare in conflitto anche con Nixon, avendo appreso del suo tentativo di usare intercettazioni e microspie per tenere sotto controllo, ed eventualmente ricattare, politici e giornalisti (di lì a poco, infatti, sarebbe scoppiato lo scandalo Watergate). Eastwood per la realizzazione di “J.Edgar” si è circondato di un ottimo cast in cui tra gli altri spiccano Leonardo Di Caprio, che ha accettato e vinto la sfida di recitare fortemente invecchiato e travisato nell’aspetto, e Judi Dench nel ruolo dell’autoritaria madre del protagonista. Eccezionali il montaggio, le inquadrature, la fotografia che mantiene un fascino volutamente retrò, ispirandosi agli effetti del bianco e nero, con profondi chiaroscuri. Nel film, però, si respira talvolta un senso di incompiutezza, forse determinato dal tentativo di mantenere ad ogni costo un certo equilibrio nel raccontare la storia e il carattere di un uomo che nel bene e nel male ha segnato la storia dell’America. A volte bisognava avere il coraggio di osare di più, soprattutto in fase di sceneggiatura, approfondendo alcuni episodi controversi e oscuri della storia. Per certi aspetti Hoover ricorda i classici personaggi di Eastwood - nei quali evidentemente riconosce qualcosa di sé - come il protagonista di “Gran Torino”, chiuso in se stesso e senza veri amici. Anche il potente capo dell’FBI è un tipo schivo e diffidente, totalmente dedito al proprio lavoro, ma rimasto ad un livello di affettività quasi infantile nella vita privata, bloccato emotivamente da una madre che ha fatto di lui l’unica ragione di vita e che ha enormi aspettative riguardo al suo futuro.



J. Edgar è un uomo che, essendo stato balbuziente, per riuscire a parlare in modo normale ha imparato a reagire con un ferreo autocontrollo e una volontà incrollabile. La sua smania di controllare tutto, ogni dettaglio, fa di lui un poliziotto pressoché perfetto, un organizzatore quasi infallibile, ma anche un uomo estremamente pericoloso, perfino per se stesso. Per diventare così come lo vediamo, Hoover ha dovuto, in realtà, rinnegare molti aspetti della sua personalità, sacrificando tutto alla “causa”. Alcuni hanno paragonato la lettura che Eastwood dà di questo personaggio a quella che recentemente Michael Mann, e in precedenza la cinematografia degli anni ’30, aveva dato di John Dillinger (il nemico pubblico numero uno, che proprio Hoover contribuì a eliminare) considerandole come due facce della stessa medaglia: l’anarchico trasgressore di tutte le regole e il fanatico difensore ad oltranza dello Stato, ma altrettanto pronto a violare le leggi quando lo ritenesse necessario “ per la sicurezza nazionale”. Entrambi sono accomunati dall’esibizionismo dell’apparire sui rotocalchi, nei cinegiornali come nei fumetti e dal desiderio di essere considerati degli eroi dall’opinione pubblica. Edgar Hoover è l’uomo che con pazienza certosina alla fine, dopo tre anni di minuziose ricerche, riuscirà a scovare l’assassino del figlio di Charles Lindberg, il noto aviatore, creando la polizia “scientifica”, proprio allo scopo di risolvere l’intricato caso. Nello stesso periodo, per coordinare meglio le indagini, fonda dal primitivo Bureau of Investigation, l’FBI per perseguire i reati federali della criminalità organizzata. Una storia la sua piena di ambiguità e misteri: chiuso nei suoi uffici dirige le indagini e coordina i servizi informativi – basati su intercettazioni e microspie - con il pugno di ferro, ma poi si lascia passare sotto il naso qualcosa di così grave come l’assassinio del presidente Kennedy. Pronuncia solo poche, fredde parole al telefono con il fratello Bob: “Il presidente è stato assassinato”. Poi chiude la comunicazione senza neppure attendere una risposta…



Il film, quindi, pur senza prendere direttamente una posizione, proprio attraverso queste reticenze, lascia intendere che Hoover fosse in qualche modo implicato nell’assassinio di John Kennedy, dopo i gravi scontri avuti con il fratello Robert e i documenti riservati che accusavano il presidente di frequentare un’amante “comunista”. A causa di attività che egli considerava anti-americane, Hoover aveva inviato minacce e ricatti a Martin Luther King perché non ritirasse il Nobel per la pace; anche in questo caso non sappiamo quale sia stato il suo livello di coinvolgimento nell’assassinio del famoso difensore dei diritti civili dei neri americani. Il capo dell’FBI era convito che il suo lavoro fosse fondamentale per preservare la sicurezza degli Stati Uniti, e perseguiva i suoi scopi anche con mezzi molto spregiudicati e spietati. Paradossalmente Eastwood, non prendendo direttamente una posizione su questo personaggio, mette maggiormente in evidenza le sue ombre e soprattutto, cosa che probabilmente gli interessa di più, i lati oscuri dell’America: quella che ancora oggi con la legge patriottica (USA Patriot Act prorogata anche sotto la presidenza Obama) ritiene che si possa tenere in carcere senza processo a tempo indeterminato un detenuto straniero sospettato di terrorismo o addirittura tollera che si possano “prelevare” e imprigionare in nome della sicurezza nazionale i sospettati che si trovino nel territorio di altri paesi (non disdegnando neppure la tortura in fase di interrogatorio). L’ossessione per la sicurezza nazionale di Hoover si riflette in un atteggiamento ancora oggi tipico di molti americani ed è significativo che da questo punto di vista anche attualmente cambino i presidenti e non cambi nulla o quasi, segno che certe decisioni non vengono prese perché si pensa che molti elettori non le condividerebbero. Perciò forse bisognerebbe ribaltare il concetto e dire non tanto che il capo dell’FBI è sopravvissuto a otto presidenti, ma piuttosto che egli rappresentava lo zoccolo duro di una certa America, quella a cui tutti i presidenti, alla fine, si sono semplicemente adeguati più o meno volentieri.



Per questo a Hoover viene lasciata narrare la sua storia a modo suo, perché, per certi aspetti, è quella che una parte degli statunitensi vorrebbe sentirsi raccontare e le obiezioni degli altri, anche nei riguardi delle sue bugie, risultano, chissà perché, sempre troppo deboli. Una vita da gran sacerdote della sicurezza nazionale, immolata al lavoro, nella quale si nasconde, però, una verità che J.Edgar non poteva accettare, cioè la propria omosessualità. E’ chiaro che questo per gli ultra tradizionalisti americani è decisamente un colpo basso: vedere un loro paladino ritratto nel suo aspetto più fragile e irrisolto certo non può aver fatto loro piacere. Tant’è vero che questo film non è stato amato dagli americani, forse anche per quel trucco eccessivo che ha qualcosa di volutamente caricaturale o forse perché J.Edgar rispecchia gran parte delle loro ossessioni, l’aspetto caratteristico della volontà incrollabile, ma anche della violenza dell’America, che si sente continuamente accerchiata, minacciata da nemici interni ed esterni. Il film non è affatto rassicurante, così come “Gangs of New York” di Martin Scorsese, con il quale ha in comune l’idea di un’America retta sì da una volontà formidabile, ma allo stesso tempo dall’autoritarismo e dalla violenza esercitata anche da chi dovrebbe far rispettare le regole. Perché anche questa è l’America, bellezza!  
Rossana Cerretti